PRIMO LEVI


Il Lager è la fame.
 
 
 
 

“Se questo è un uomo” di Primo Levi:

 riassunto per capitoli

Introduzione

Se questo è un uomo descrive l’epopea vissuta da Levi, dalla deportazione in un campo di lavoro di Monowitz, un lager satellite di Auschwitz, alla successiva liberazione nel gennaio del 1945. Il libro, pensato come una testimonianza nei confronti dei “sommersi” (ovvero di chi non è sopravvissuto alle atroci condizioni di vita del campo), viene scritto di getto da Levi e, dopo essere stato rifiutato dall’editore Einaudi, viene pubblicato da De Silva nel 1947. Il successo arriverà nel 1958, quando Se questo è un uomo, con l’aggiunta di alcune pagine, verrà ripubblicato da Einaudi. Il testo è suddiviso in diciassette capitoli

 

Riassunto per capitoli

 

Capitolo I, Il viaggio: Primo Levi si trova nel campo di transito di Fossoli, vicino Modena. Da qui i prigionieri vengono trasportati in treno in Polonia, attraversando prima il Brennero e poi l’Austria. Le condizioni che i prigionieri sono costretti a sopportare nei vagoni sono disumane e molti muoiono già prima dell’arrivo. Una volta ad Auschwitz i prigionieri vengono fatti scendere, divisi sia per sesso che per età o condizioni fisiche: spesso è semplicemente il caso di trovarsi in una fila e non in un’altra a determinare la condanna a morte o la salvezza di un essere umano. I selezionati salgono su degli autocarri dove vengono confiscati loro tutti gli averi.

Capitolo II, Sul fondo: All’arrivo i prigionieri vengono lavati e rasati, ricevono le divise e sono tatuati con un numero di riconoscimento sul braccio (Levi è così il prigioniero 174517). Vengono radunati e contati nella Piazza d’Appello, di cui viene data una descrizione. L’autore fin da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del campo e evitare questioni: il tutto rimane scolpito nella memoria per l’agghiacciante scritta che accoglie i deportati, Arbeit macht frei (in tedesco: “Il lavoro rende liberi”). Il capitolo descrive pure la struttura e la disposizione dei diversi edifici del campo, così come la gerarchia che regola la vita dei prigionieri.

Capitolo III, Iniziazione: Il capitolo si concentra su due problemi fondamentali: il cibo e la lingua. Come è difficile procurarsi da mangiare - e pertanto il pane è un fondamentale oggetto di scambio - ugualmente è difficile comprendersi nella babele di linguaggi che affollano il campo, tanto che Monowitz appare agli occhi del protagonista una riedizione moderna e perversa della biblica Torre di Babele 1. Levi passa poi a descrivere l’igiene del campo, del tutto assente, e l’incontro avuto al lavatoio con un conoscente, che gli ricorda che smettere di lavarsi equivale a cominciare a morire.

Capitolo IV, Ka-Be: Il capitolo prende il nome dall’abbreviazione (dal tedesco Krankenbau, “ospedale”) con cui è designata l’infermeria del campo. Levi è condotto qui per curare una ferita al piede: può quindi godere di una tregua di venti giorni, con cibo assicurato e riparo dal freddo. Tuttavia, durante la convalescenza, confrontando il numero che ha tatuato sul braccio col numero relativamente esiguo dei prigionieri di Monowitz, capisce che gran parte dei deportati devono essere morti, e che il destino nel campo è, per gran parte degli uomini, senza speranza. Ciò gli viene confermato anche da altri deportati ebrei, che però ostentano disprezzo nei confronti del protagonista, che non parla la loro lingua.

Capitolo V, Le nostre notti: Levi, terminata la convalescenza, viene assegnato al Block 45, dove trova il suo amico Alberto. Racconta le sue notti - che poi sono le notti di tutti i prigionieri - divise tra gli incubi e la veglia, in un sonno che non può mai essere considerato tale. I due sogni ricorrenti sono quelli di non essere creduto una volta tornato a casa e di vedersi sottratto il cibo.

Capitolo VI, Il lavoro: Il lavoro assegnato a Levi è trasportare le traversine di legno per la costruzione della ferrovia. L’autore non è avvezzo ai lavori pesanti e non è di forte costituzione, così rischia più volte di soccombere al lavoro. Per fortuna è affiancato da un compagno di camerata, il francese Resnyk, che lavora in coppia con lui aiutandolo in più occasioni.

Capitolo VII, Una buona giornata: Il capitolo si concentra su un momento di rottura della routine infernale del campo: in un giorno sereno, la razione di cibo per ogni prigioniero è il doppio del solito. Tuttavia l’angoscia della morte non abbandona gli internati, che all’orizzonte vedono il fumo delle ciminiere di Birkenau che bruciano i cadaveri dei morti (per lo più, donne, anziani e bambini).

Capitolo VIII, Al di qua del bene e del male 2: L’analisi dei commerci tra i prigionieri sono regolati da una sorta di borsa clandestina e prevedono gli scambi di beni di prima necessità come vestiti, cibo e utensili. Ad esempio, il valore dei vestiti scambiati varia in base al cambio della biancheria organizzato dai tedeschi. Spesso è necessario avere degli scambi con i civili, ma questa è una pratica rischiosa poiché essere scoperti significa venir mandati a lavorare nelle miniere di carbone.

Capitolo IX, I sommersi e i salvati: In un capitolo fondamentale di Se questo è un uomo 3 Levi fa una distinzione tra i “sommersi” e i “salvati”, corredandola con le storie di quattro prigionieri. I sommersi, o “musulmani” (dal tedesco Muselmann, probabilmente per analogia tra un uomo collassato a terra dallo sfinimento e un fedele islamico in preghiera), sono coloro che si attengono pedissequamente alle regole ufficiali, finendo per essere i primi a indebolirsi e morire. I salvati invece sono coloro che lottano per la sopravvivenza cercando di emergere e guadagnarsi una posizione di lavoro privilegiato, come quella di Kapo (ovvero, di comandante e controllore di altri internati).

Capitolo X, L’esame di chimica: Nel campo viene istituito un laboratorio di chimica. Primo Levi e Alberto inizialmente partecipano trasportando cloruro di magnesio, poi, in seguito ad un esame, sono ammessi a lavorare nel laboratorio. L’esame è particolarmente difficile perché è solamente in tedesco, ma superarlo significa garantirsi un lavoro importante all’interno del lager e quindi una pur minima possibilità di sopravvivenza.

Capitolo XI, Il canto di Ulisse: Levi, durante il trasporto di una cisterna di zuppa, cerca di ricordarsi i versi canto XXVI dell'Inferno di Dante per recitarli ad un compagno francese, Jean Picolo. Lo sforzo di trasmettere ad un ascoltatore straniero il significato e la profonda bellezza del canto dantesco diventano, nel contesto assurdo ed alienante del capo di concentramento, una metafora dell’esperienza della prigionia.  

Capitolo XII, I fatti dell’estate: Sul finire del secondo conflitto mondiale, i bombardamenti alleati costringono a interrompere i lavori nel campo. Se da un lato le vaghe notizie del nuovo corso che sta prendendo la guerra accendono una pallida speranza nei prigionieri, dall’altro il timore maggiore è quello di venir bombardati. Levi conosce Lorenzo, un civile italiano che gli porta del pane risvegliando in lui un minimo di fiducia.

Capitolo XIII, Ottobre 1944: L’arrivo dell’inverno e la quantità di prigionieri che sono arrivati nel campo implicano il ripetersi delle selezioni per il crematorio, temute da tutti i deportati. Una domenica pomeriggio tocca anche a Levi parteciparvi: si tratta di spogliarsi e fare una corsa davanti a un funzionario che delibera la sorte del prigioniero.

Capitolo XIV, Kraus: Levi descrive le condizioni del lager, che con l’inverno sono peggiorate, e fa il ritratto di un prigioniero, Kraus.

Capitolo XV, Die drei Leute vom Labor (in tedesco, “Le tre persone del laboratorio”): Levi viene scelto come specialista per il laboratorio di chimica. Lavorare in laboratorio significa poter passare la giornata al caldo ed entrare a contatto con oggetti utili per il baratto. Il personale civile del laboratorio (tra cui anche tre donne) conversa liberamente della propria vita nel mondo libero, generando un contrasto paradossale con le condizioni dei prigionieri.

Capitolo XVI, L’ultimo: Il capitolo è per gran parte dedicato alla figura di Alberto (cui corrisponde la figura reale di Alberto Dalla Volta, un giovane ebreo bresciano che nel campo diventerà il miglior amico dello scrittore), che è una figura ricordata per l’ingegno e l’inventiva, nonché per la capacità di adattarsi alla tremenda vita del campo. Viene poi raccontata l’impiccagione a scopo dimostrativo di un prigioniero che aveva partecipato a un assalto a un forno crematorio e a cui i prigionieri sono costretti ad assistere. Prima di morire il prigioniero grida: “Compagni, io sono l’ultimo!”.

Capitolo XVII, Storia di dieci giorni: Con l’avanzata dell’Armata Rossa i nazisti decidono di evacuare i prigionieri sani e lasciare al loro destino i malati. Levi, che ha la scarlattina, rimane in infermeria, mentre Alberto parte per quella che sarà la marcia della morte: di fatto, i tedeschi sterminano i prigionieri rimasti nel corso dell’esodo. Levi si dà da fare per aiutare i prigionieri che stanno peggio; ormai al campo sono rimasti solo i prigionieri malati, che danno fondo alle scorte per sopravvivere mentre i bombardamenti russi si avvicinano al lager. Alcune baracche vengono colpite e, mancando i tedeschi, non ci sono più acqua, elettricità o riscaldamento. Il gelido inverno polacco fa morire molti prigionieri e impedisce ai vivi di seppellirli. Levi e alcuni altri prigionieri riescono ad organizzarsi in una baracca e a sopravvivere fino all’arrivo dei russi: è il 27 gennaio 1945 4.

1 L’episodio della Torre di Babele è descritto in Genesi, 11, 1-9.

2 il titolo del capitolo è un’evidente citazione capovolta di un’opera di Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), che sviluppa alcuni temi di Così parlò Zarathustra. Questo capitolo dimostra come l’uomo del campo di concentramento sia programmaticamente ridotto al nulla, e non un Freigeist (“spirito libero”) come nella filosofia nietzschiana.

3 Il titolo verrà poi ripreso in un famoso saggio di Levi del 1986.

4 Per commemorare tutte le vittime dell’Olocausto nazista, nel 2005 il 27 gennaio è diventato il Giorno della Memoria.

 
 
 

Frasi, citazioni e aforismi di Primo Levi
 
Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) è stato autore di racconti, memorie, poesie e romanzi. Il suo romanzo più famoso, Se questo è un uomo, racconta le sue terribili esperienze nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. Presento una raccolta di frasi, citazioni e aforismi di Primo Levi.

L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.
(La chiave a stella)

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.
(Se questo è un uomo)

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Se questo è un uomo)

Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.
(Frase attribuita a Primo Levi)

Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo.
(Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi)

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea
(dalla prefazione al libro di Léon Poliakov, Auschwitz)

L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria
(Se questo è un uomo)

Non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno dei Lager: non era riconducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. (…) L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il «noi» perdeva i suoi confini.
(I sommersi e i salvati)

Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto».
(Se questo è un uomo)

I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere.
(Se questo è un uomo)

Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi.
(Se questo è un uomo)

Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità, e spesso non quelli che ti aspetteresti.
(Se questo è un uomo)

Essi, gli altri prigionieri di Auschwitz, popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.
(Se questo è un uomo)

Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.
(Se questo è un uomo)

Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei santi.
(Se questo è un uomo)

Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani.
(Se questo è un uomo)

In questo Ka-Be, parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci «ricordati che devi morire», meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia.
(Se questo è un uomo)

La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo
(Se questo è un uomo)

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
(Se questo è un uomo)

Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
(Se questo è un uomo)

Il Lager è la fame.
(Se questo è un uomo)

Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, (…) Ma molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici (…). Lo cercavano i frustrati (…) Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
(I sommersi e i salvati)

Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere.
(Se questo è un uomo)

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.
(Se questo è un uomo)

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
(La tregua)

Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti.
(La tregua)

Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
(La tregua)

Perché ognuno è l’ebreo di qualcuno, perché i polacchi sono gli ebrei dei tedeschi e dei russi.
(Se non ora quando?)

In ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere.
(La tregua)

Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l’inverso. – Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahu.
(La tregua)

Il termine «libertà» ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo.
(La chiave a stella)

Davanti al 40 di Viale Gorizia c’era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. (…) Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.
(Il sistema periodico)

Lei deve sapere che farmi avanti quando tutti si fanno indietro a me mi è sempre piaciuto, e mi piace ancora.
(La chiave a stella)

Infatti, come c’è un’arte di raccontare, solidamente codificata attraverso mille prove ed errori, così c’è pure un’arte dell’ascoltare, altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma.
(La chiave a stella)

E malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo.
(La chiave a stella)

Io ho idea che se certi lavori li insegnassero a scuola, invece di Romolo e Remo, si guadagnerebbe.
(La chiave a stella)

Io sulle prime credevo che fosse una ragazza un po’ strana, perché non avevo esperienza e non sapevo che tutte le ragazze sono strane, o per un verso o per un altro, e se una non è strana vuol dire che è ancora più strana delle altre, appunto perché è fuori quota, non so se mi spiego.
(La chiave a stella)

E già difficile per il chimico antivedere, all’infuori dell’esperienza, l’interazione fra due molecole semplici; del tutto impossibile predire cosa avverrà all’incontro di due molecole moderatamente complesse. Che predire sull’incontro di due esseri umani?
(La chiave a stella)

Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.
(da Un passato che credevamo non dovesse tornare più, Corriere della sera, 8 maggio 1974)

E’ ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò è tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori.
(I sommersi e i salvati)

A contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere.
(I sommersi e i salvati)

Non so, e non mi interessa sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. (…) Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grigie, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera.
(I sommersi e i salvati)

I “salvati” del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
(I sommersi e i salvati)

Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca.
(I sommersi e i salvati)

Il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di un ordine e di una legalità detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata.
(Il sistema periodico)

Ma venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni.
(Il sistema periodico)

Se potessi mi riempirei la casa di tutti gli animali possibili. Farei ogni sforzo non solo per osservarli, ma anche per entrare in comunicazione con loro. Non farei questo in vista di un traguardo scientifico (non ne ho la cultura né la preparazione), ma per simpatia, e perché sono sicuro che ne trarrei uno straordinario arricchimento spirituale e una più compiuta visione del mondo. In mancanza di meglio, leggo con godimento e stupore sempre rinnovati molti libri vecchi e nuovi che parlano di animali, e mi pare di ricavarne un nutrimento vitale, indipendentemente dal loro valore letterario o scientifico. Possono anche essere pieni di bugie, come il vecchio Plinio: non ha importanza, il loro valore sta nei suggerimenti che forniscono.
(Ranocchi sulla luna e altri animali)

Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L’informazione è oggi «il quarto potere»: almeno in teoria.
(Se questo è un uomo)

Non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri.
(Se questo è un uomo)

È meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. E meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.
(Se questo è un uomo)

È certamente vero che il terrorismo di Stato è un’arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva.
(Se questo è un uomo)

Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui.
(Se questo è un uomo)

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